“Ammutinamento”, di Manon Soavi

Di Sara Marchesi

Traduttrice italiana e studiosa di Françoise d'Eaubonne: provo a far conoscere il suo pensiero e a contribuire a una sua attualizzazione.

Pubblicato su 05/05/2024

Impregnata fin dall’infanzia dalla filosofia del Non-Fare di Itsuo Tsuda, non credo né al caso né al destino ineluttabile. Piuttosto, come i taoisti da cui deriva questa filosofia, penso che noi siamo quello che facciamo delle circostanze. Il nostro posizionamento influisce sulle circostanze e le circostanze influiscono su di noi. Chi fa cosa, chi ha iniziato, sono questioni inutili. Dopo aver cercato invano molti libri di Françoise d’Eaubonne, ho notato, divertita, che il primo su cui sono riuscita a mettere le mani è, ovviamente, Contre-violence ou la résistance à l’État.

Perché ovviamente? Perché insegno arti marziali e quello che Françoise d’Eaubonne ha criticato e rifiutato, per cui ha lottato, corrisponde a ciò che hanno criticato e rifiutato, per cui hanno lottato i miei genitori. Se non avessero compiuto determinate azioni, non sarei quella che sono. Nel 1978 Françoise d’Eaubonne termina quasi Contre-violence con queste parole: «ho sempre di più l’ossessionante impressione di scrivere per i e le sopravvissuti/e del futuro». E io, nel 2023, in questo futuro, ho l’impressione che lei mi parli. Che mi parli degli interrogativi dei miei genitori,  di quello che hanno rifiutato e di quello che li ha spinti, in modo viscerale, a trovare maniere diverse di vivere.

Vengo da una stirpe di ribelli radicali, cosa per cui non ho particolari meriti. Nonno, nonna, padre, madre, comunisti, anarchici, situazionisti, femministi, libertari, antimilitaristi,
anticolonialisti… Si sono ribellati, ognuno a modo suo, e hanno rifiutato il mondo così com’era, il mondo così com’è.

Nel 1968 i miei genitori avevano diciassette e quindici anni. Françoise d’Eaubonne, invece, aveva più di quarant’anni e sebbene non si siano conosciuti, sono evoluti in sfere intellettuali vicine. In seguito a quel momento di rottura che fu il Sessantotto, i miei genitori hanno non soltanto criticato la società, ma anche agito prendendo delle decisioni radicali. A cominciare da quella di dare ascolto ai propri rifiuti lasciandosi guidare da essi. A partire da questi atti fondativi, hanno cercato di vivere diversamente. In questa ricerca, diversi autori e filosofi li hanno guidati, ma l’incontro più decisivo per la loro vita è stato quello con il giapponese Itsuo Tsuda. La filosofia del Non-Fare e le pratiche del corpo da lui proposte (Aikido e Katsugen undo) hanno dato ai miei genitori una prospettiva che non li ha più lasciati.

A partire da questo hanno creato, fin dagli anni Ottanta, mondi differenti, non solo in relazione alla loro famiglia, con mia sorella e me, ma anche in senso più ampio a cominciare da luoghi diversi o da altre maniere di essere, di fare; altri possibili sono esistiti ed esistono ancora per alcuni. Nel corso del tempo hanno creato un giardino d’infanzia, Le jardin Floréal, diversi atelier di pittura-espressione Arno Stern, una scuola di musica alternativa,  La musique buissonnière, e poi, soprattutto, dei dojo. Sono i promotori della creazione di più di una decina di dojo in Europa. Dojo con caratteristiche molto particolari che combinano pratiche del corpo, filosofia del Non-Fare e principi anarchici. Tutto ciò per permettere ad altri di liberarsi a loro volta. Hanno risposto in questo modo con l’azione alle crisi e alle questioni che si ponevano, così simili a quelle di Françoise d’Eaubonne.

Nel documentario di Manon Aubel si sente Françoise d’Eaubonne dire «credo che bisogna essere intolleranti in una situazione intollerabile». Mi sembra di sentire i miei genitori ripetere così tante volte «Un giorno, quello che è insopportabile diventa insopportabile». Io che non immaginavo che si potessero sopportare così tante cose. Io che dico «No» così facilmente da quando so parlare, e anche da prima! I miei genitori hanno fatto tantissime cose in modo diverso, tra cui quest’atto così denigrato ed eppure così fondativo: non mandarci a scuola, mia sorella e me. Quale risonanza quando nel suo libro Contre-violence d’Eaubonne ne dà le ragioni così semplici in modo tanto lapidario quanto efficace: «Non esistono ‘buoni’ o ‘cattivi’ educatori; è l’educazione stessa – come la scuola che l’esprime – che va completamente rimessa in questione. È marcia perché mira ad adattare a un mondo di marciume». Questo mi ricorda le parole di mio padre «io non educo il bambino, lui si educa tramite la nostra relazione». È una ricerca che esige molta libertà e precisione in una relazione asimmetrica per natura. Perché potere e violenza sono al centro dell’educazione così come viene ancora perlopiù pensata nel nostro mondo. Potere e violenza iniziano dalla nascita e continuano con il dominio sui bambini.

Il cuore di Contre-violence di Françoise d’Eaubonne è, secondo me, quest’analisi del «malinteso volontario» della nostra società rispetto alla Violenza e al Potere. L’autrice esplicita la necessità di uscire dalla confusione su questi argomenti e di capire che non c’è un comune denominatore tra la Violenza e ciò che chiama la Contro-violenza. A seconda che si tratti della Violenza dei dominanti (stati, multinazionali, patriarcato…) o delle reazioni di resistenza all’oppressione (contro-violenza). C’è Contro-violenza nel bambino che urla per non essere obbligato ad andare a scuola. Si può paragonare alla Violenza totale, assoluta, che rappresenta la possibilità per un adulto di forzare il bambino ogni giorno della sua vita? E quando, alla fine, una donna prende un fucile e spara alla schiena del marito che aggredisce, lei e i suoi bambini, da decenni?

Françoise d’Eaubonne rifiuta l’idea che si possa trovare un comune denominatore, la detta Violenza, tra queste situazioni. Accomunare queste due forme significa fare il gioco dei dominanti che si appropriano del diritto esclusivo di usare la violenza in nome di un presunto “bene” (mantenimento dell’ordine, violenza educativa, difesa della proprietà privata…). La sua analisi si applica anche alla nozione di Potere. Dato che troppo spesso non siamo in grado di pensare la Violenza e il Potere       se non come forme di oppressione, non vogliamo farne uso per paura di essere a nostra volta tiranni. Ma, il Potere SU non ha niente in comune con il potere del dentro (come lo chiama Starhawk), l’abitudine di vedervi un comune denominatore, il detto Potere, è una manipolazione intellettuale che ci blocca e ci impedisce di usare tutte le nostre forze interne. Laddove, tutti noi esercitiamo i NOSTRI poteri, non c’è più spazio per IL Potere, non c’è più spazio per l’obbedienza.

Infine d’Eaubonne evidenzia l’ipocrisia del nostro mondo che incensa la non-violenza mentre, proprio come qualcuno cresciuto in prigione non saprebbe cosa sia la libertà, questa società non ha alcuna idea di cosa sarebbe una società senza violenza. L’autrice riassume tutto ciò in modo molto appropriato: «La nonviolenza è l’omaggio che un mondo violento rende all’idea di una società senza violenza».

Praticante di arti marziali fin dall’infanzia (mio padre insegna l’Aikido) e oggi insegnante a mia volta, la violenza è una questione che torna regolarmente nelle mie riflessioni e nella mia pratica. Mi sbalordisce vedere fino a che punto le persone, soprattutto le donne, hanno nascosto, bandito e interiorizzato la violenza. Intrattenendo così con essa un rapporto nevrotico, molto più pericoloso. In particolare, lo spiega molto bene la filosofa  Elsa Dorlin in Difendersi, una filosofia della violenza, sviluppando la nozione di «fabbrica dei corpi disarmati», o quando dice «Non si tratta tanto di imparare a combattere quanto di disimparare a non combattere».

D’Eaubonne intraprende già questa strada quando interpella i lettori: «Abbiamo riflettuto a sufficienza sul senso dello slogan: riappropriarsi del proprio corpo? Negli ambienti femministi, esso è sempre usato con un significato sessuale: poter fare l’amore o rifiutarsi, potere essere madre o no; al meglio poter controllare lo spazio pubblico riservato agli uomini senza scontarsi con l’insulto fisico, il corteggiamento, la violenza. Non abbiamo ancora riflettuto sulla necessità di riappropriarci dell’aggressività, o piuttosto, semplicemente, della sua possibilità; riscoprire gli atteggiamenti ignorati, rimossi, che ci fanno così paura, le più semplici posizioni combattive del corpo».

La potenza interiore del nostro corpo è in effetti da riscoprire e questo è quanto si propone il cammino di una pratica come quella dell’Aikido. Sui tatami, ritrovare l’importanza di lavorare le posture, il semplice fatto di muovere il corpo, il rapporto con lo spazio, la possibilità di toccare. In una società in cui non tocchiamo più al di fuori della sessualità, questo rapporto con il reale, con il corpo, il nostro come quello altrui, è una riscoperta. Riattivare le nostre capacità è un processo che ci rende potenti e che passa attraverso il corpo: «Prima di affermarsi, bisogna posizionarsi», come ha detto un giorno mio padre. Posizionarsi non può essere un’idea, è il corpo che lo fa da solo se è abbastanza libero per questo.

Françoise d’Eaubonne evidenzia la necessità di distruggere IL potere e di riprendere i NOSTRI poteri, quelli che ognuno ha dentro di sé. Riprendere i nostri poteri è la chiave della distruzione del Potere. Ma per esperienza so in quale misura siano difficili da far emergere per chi è stato dominato fin dall’infanzia. Nei dojo autogestiti della nostra scuola, alcuni dei quali esistono da quarant’anni, lo vedo tutti i giorni. Così come è ovvio per un bambino rispettato esercitare il proprio potere naturale, è altrettanto difficile per un adulto rovinato. «Il Potere fa marcire tutto, compreso lo schiavo; perché quest’ultimo accetta di esserlo in cambio di una porzione di Esso, che è il contrario del suo potere che non ha mai potuto esercitare (nel senso della gioia, del dono, della creatività)» (Françoise d’Eaubonne).

Eppure questo lavoro sul risveglio dell’essere e l’auto-organizzazione del gruppo devono proprio portarci a questo: ritrovare i nostri poteri interni. È qualcosa su cui noi lavoriamo quotidianamente, sia praticando sui tatami che parlandone, in quanto gruppo di persone che si incontrano quasi tutti i giorni e che decidono il proprio cammino insieme. Ma le abitudini, la formattazione scolastica, l’educazione gerarchizzata, tutto ciò complica le cose. Ci vuole del tempo per le persone e, ogni giorno, rimettere sul tavolo IL potere cosicché le persone se ne riapproprino è un lavoro a lungo termine. Françoise d’Eaubonne è molto lucida quando dice: «Non prendiamoci per esseri che scelgono liberamente e maestosamente, ‘per il bene del popolo’, una cosa o un’altra, e rifiutano il resto; noi siamo questo popolo, questi oppressi, questi mistificati; e anche questi complici dell’oppressione. […] Ma almeno possiamo aiutare queste leggi nella buona direzione e non in quella opposta. Soprattutto noi, le donne, riappropriandoci del nostro corpo e delle sue leggi». Questa lucidità mi riporta, ancora una volta, alla posizione dei miei genitori, che ci hanno guidato con questa idea secondo la quale la nostra libertà non serve a niente se non è condivisa con gli altri. È per questo che non possiamo impedirci di dire: «Ma guardate! La gabbia è aperta in realtà. Guardate! L’uscita è di là».

I nostri genitori non volevano che il fatto di averci preservate dal dominio e dalla formattazione facesse di noi delle adulte che si credono eccezionali, al di sopra delle masse. Al contrario siamo irrimediabilmente legate agli altri. E perché la nostra catena è, forse, un po’ più lunga (come dice il personaggio di Zorba il greco di Níkos Kazantzákis) dobbiamo dire a tutti che «è possibile» e agire sempre per renderlo possibile.

Alla fine di  Contre-violence c’è un NO assordante. Quando Françoise d’Eaubonne dice «rifiuto di sottomettermi e rifiuto di essere sacrificata», questo No risuona in me come quello dei miei genitori e come l’essenza dell’Aikido in cui non ci sono «né vincitori né vinti», ma in cui bisogna tuttavia uscire dalla situazione di conflitto che ci viene imposta. Bisogna dire NO con tutto il proprio essere. Risvegliare la capacità del corpo di dire NO, anche nelle reazioni biologiche profonde. Autorizzare il proprio corpo a reagire, a essere malato, con questa forza inaudita che ha, come la forza della natura, la forza dei bambini piccoli, la forza del corpo. Una forza che è stata domata, e di cui abbiamo spesso paura. Abbiamo paura della minima reazione del nostro corpo, come se la reazione fosse nostra nemica. Anche su questo D’Eaubonne si unisce a Illich e Tsuda che indicano la medicalizzazione e la patologizzazione come mezzi di asservimento e di indebolimento dell’organismo, quello che d’Eaubonne chiama «il pestaggio dell’organismo tramite i gadget farmaceutici e delle libertà tramite la camicia di forza chimica degli psichiatri». Perché alla fine si tratta sempre di domare questo corpo che si rivolta e che non sopporta quello che gli viene fatto subire. Questa mancanza di movimento, di libertà, di gioia. Così oggi è radicale non combattere le reazioni del corpo, ma tenerne conto come una forza di riequilibrio formidabile, una forza di cambiamento invece che un sintomo da eliminare.

Per finire su quello che è risuonato per me in Contre-violence, c’è questa battuta finale, rivolta al futuro: un giorno verrà «l’Ammutinamento delle donne contro la Società del Potere». Quando guardo dietro di me vedo che ognuno di loro, Françoise d’Eaubonne, i miei genitori e tanti altri, con i loro difetti, ha permesso di arrivare al mondo di oggi con le sue catastrofi e la sua follia ma anche con i suoi sconvolgimenti e le sue evoluzioni positive. Ho potuto vivere diversamente perché loro hanno cercato di non riprodurre lo stesso mondo. L’“ammuntinamento delle donne” è cominciato con loro e noi siamo delle passerelle per quelle che verranno, per i e le superstiti del futuro del 2070.

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